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Capro', eroe tragico

Il Capro' del Teatro Immediato visto al Matta di Pescara a fine febbraio è un esempio di ottimo teatro. Molto del merito va al testo di Vincenzo Mambella, la cui evidente affinità con il teatro di narrazione di Baliani, Paolini, Celestini, etc., non ne inficia la forte, originale identità drammaturgica.

 

Qualità che gli deriva innanzitutto da una fabula che già a raccontarla in poche righe esprime tutta la sua potenza drammatica: Capro’, contadino avvezzo alla più dura fatica quotidiana e di cocciute convinzioni “antimoderniste”, non vede altro orizzonte che il suo pezzo di terra e la vita di stenti ad esso legato; Capro’ ha un fratello minore, delicato e sognatore, che egli chiama sarcasticamente il Signorino, pur nutrendo per lui uno scontroso affetto; il Signorino s’innamora della bella Moglie del Maestro che però gli preferisce il ruvido Capro’; quando lo scopre, il Signorino si toglie la vita impiccandosi; Caprò, distrutto dal dolore e dal senso di colpa, recide le radici con la sua amara-amata terra e s’imbarca per l’America, dove forse non arriverà mai. Una storia dal sapore classico, percorsa da una ininterrotta, crescente tensione tragica. Una tragedia che già s’annida nella dissimulata finezza del titolo: Capro’, animalesco soprannome del protagonista, è troncatura dialettale di caprone, dunque capro; e “canto del capro (o per il capro)” è il significato etimologico del greco antico trago(i)día, cioè tragedia.

Capro’ ha statura di personaggio mitico nella sua cocciuta e compiaciuta cecità di fronte alla complessità e ai mutamenti del mondo e della società. Per lui esiste solo l’immutabile orizzonte del suo pezzo di terra e della dura fatica necessaria per trarne da vivere. Egli irride il sogno del Signorino di emigrare in America con un argomento apparentemente sensato (“A fare che? A zappare la terra di un altro? Almeno qui la terra è mia”) ma, nell’economia del personaggio, quel ragionamento esprime solo la sua paura/rifiuto del cambiamento. La tragedia esplode quando Capro’, inesperto di donne quanto il Signorino, cede alla seduzione della Moglie del Maestro, pur sapendo che il Signorino ne è follemente innamorato.

Capro’ si macchia così d’una colpa intollerabile per lui e per il Signorino: il tradimento del fratello. Non c’è stata tracotanza nel tradimento di Capro’, né volontà d’umiliare il debole fratello, ma egli vive la sua colpa da eroe tragico che non conosce mezze misure. Perciò, se il Signorino s’è ucciso per colpa di Capro’, Capro’ uccide Capro’: uccide il Capro’ di prima, il Capro’ che mai aveva concepito di lasciare la sua terra e che ora sceglie di emigrare in America in un esilio che forse cela un destino di morte, come lascia intendere l’insistito richiamo, nella fase di promozione dello spettacolo, al naufragio nel 1891 della nave Utopia, carico di centinaia di emigranti italiani e abruzzesi. La dimensione tragica di Capro’ si svela gradualmente, mimetizzata fino alle catastrofi finali nel ritmo leggero della scrittura e nel linguaggio usato: più che dialetto, lingua dialettizzata, irruvida quanto basta per renderla credibile in un contadino abruzzese del tardo ‘800 ma provvista dell’agilità necessaria per conferire vivezza al monologo ed evitarne il paludamento retorico.

Pur prevedendo in scena il solo Capro’, Mambella ne articola la voce in una pluralità di voci citate dal protagonista, in un continuo dialogo con gli altri personaggi (il Signorino, il Padre, la Madre, il Maestro, la Moglie del Maestro) che a tratti s’orchestra in una sorta di coro per voce sola di notevole suggestione emotiva e teatrale. Ed è davvero bravo Edoardo Oliva alle prese con un personaggio teatrale ambizioso e complesso come Capro’: con una recitazione plastica e misurata nella vocalità e nella gestualità, dipana e tende in un coinvolgente crescendo il filo tragico del bel testo di Mambella.

Una bella prova d’attore, la migliore fra quelle di Oliva cui ho assistito. Di non minore riuscita è la sua sobria regia, debitamente rispettosa del testo. Di notevole efficacia la scarna scenografia antinaturalistica di Francesco Vitelli: praticamente un solo oggetto in scena, una grossa incudine (strumento non propriamente contadino) che sta lì, sul fondo, a ricordare la più dura fatica manuale oppure, quando martellata da Capro’, a farsi strumento di una risonante, barbarica monodia premusicale che ben s’accorda con una vicenda che sa più di destino che di storia.

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