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L'arte è un grande cuore rosso

Sandro Visca

L'arte è un grande cuore rosso

L’ispirazione? Non esiste. L’Aquila? Era asfissiante. Pescara? Un deserto culturale.
Il Sessantotto? Distruttivo. Guttuso? Meglio Fulvio Muzi.
Il grande artista abruzzese parla delle sue idee, della sua vita e delle “sue” città.
Senza peli sulla lingua.

di Francesco Di Vincenzo

Sandro ViscaPedone senza patente per scelta antica, Sandro Visca solca i marciapiedi di Pescara col passo lungo e saldo dell’aquilano tonificato da decenni di escursioni sul Gran Sasso. La lunga e dritta figura sembra resistere senza sforzo all’incurvatura del tempo. «È solo un’impressione, purtroppo: di recente ho scoperto di essere alto centottanta centimetri».

Beato lei.

«Già, ma da giovane ero un metro e ottantaquattro ».

Consumato dall’arte…

«Lei lo dice con ironia ma è proprio così».

Il travaglio creativo… «No, il travaglio fisico, lo stare ore e ore chino sul proprio lavoro. Io ho sessantasette anni e almeno cinquanta li ho trascorsi a tagliare e cucire stoffe, pelli, pellicce, sagomare e saldare lamiere, plasmare plastica, segare legno, forgiare ferro e bronzo, assemblare chiodi, paglia, stracci, stagnola, metacrilato, oro, argento e tanti altri materiali che ho utilizzato nelle mie opere. Io non sono un pittore da tela e cavalletto. La componente artigianale, la tecnica, la manualità, lavorare i materiali più disparati, la fatica fisica insomma, sono componenti essenziali del mio lavoro d’artista».

E l’ispirazione?

«Mah. Che cos’è l’ispirazione? Io so che mi sveglio una mattina ed ho voglia di cucire una pupazza o un arazzo, un altro ancora di costruire una struttura in legno e stoffe… È ispirazione, questa? Forse, ma io non gli do questo nome»

Goethe diceva: “La creatività è al cinque per cento ispirazione, per il novantacinque traspirazione”.

«Perfetto».

Insomma, chiunque abbia la tecnica necessaria e sia capace di lavorare sodo può dar vita ad un’opera d’arte...

«Direi proprio di no. Ciò che distingue l’artista non è l’ispirazione né la sola tecnica, pure indispensabile, ma la vocazione naturale, innata, a rimanere fuori dagli schemi, a portare nel mondo, non solo in quello dell’arte, uno sguardo diverso, la capacità di essere differente, di non conformarsi ai percorsi prestabiliti, alle mode, al mercato. È lo scarto dalla norma, dalle mode, dal conformismo, che fa l’artista».


Eppure lei, negli anni Sessanta, a Milano, era sotto contratto con un importante gallerista…

«Appunto, conosco ciò di cui parlo. Quel gallerista l’ho mollato dopo un anno, rinunciando a un bel po’ di soldi e scegliendo di venirmene a Pescara a vivere con il modesto stipendio di insegnante del Liceo Artistico».

Masochismo o superbia?

«No, semplicemente voglia, anzi bisogno, di sentirmi libero, di essere me stesso, di seguire un mio percorso artistico, e di conseguenza esistenziale, assolutamente personale. Nessuno può dirmi che cosa devo o non devo fare. Il formato delle mie opere lo scelgo io, non il gallerista che conosce i gusti o semplicemente le pareti di casa del suo cliente. Se dopo una serie di opere su tela realizzo un’opera con chiodi e materiali vari su tavole da imballaggio, il gallerista non può dirmi che così “spiazzo” i suoi clienti. In quel caso io dico, come ho detto: “Ok, è stato un piacere. Arrivederci e grazie”».

Prima di Milano, lei ha operato anche a Roma per due-tre anni…

«Un’esperienza il cui solo ricordo mi provoca ancora oggi disagio. Mentre a Milano ho conosciuto la durezza del mercato, a Roma ho conosciuto la mollezza dei costumi. Non sono un moralista né sono particolarmente pudico, ma in quegli anni a Roma la strada del successo passava soprattutto per le camere da letto. E a me non stava bene».

E così, dopo le delusioni di Roma e Milano, l’aquilano Sandro Visca approda a Pescara, chiamato da Giuseppe Misticoni, singolare figura d’artista, fondatore e preside a vita del Liceo Artistico. È il 1968, il mitico Sessantotto. Visca ha ventiquattro anni, l’età giusta, anche per un docente, per sentirsi parte del tumultuoso movimento di protesta che dai campus americani è giunto, radicalizzandosi, nei paesi europei. All’Aquila, già da adolescente Visca s’era battuto per cambiare l’antiquata didattica della Scuola d’Arte da lui frequentata, e si era scontrato con l’establishment culturale della città. Il Sessantotto, invece, lo vede spettatore ostile.

«Non l’ho condiviso in toto. Vedevo prevalere la componente distruttiva, negativa e non vedevo, invece, la parte propositiva. In più, non mi piacevano certi metodi. Non ho mai condiviso, ad esempio, l’uso dei picchetti, talvolta duri fino alla violenza, per impedire di entrare a scuola a chi voleva seguire le lezioni. I sessantottini si dicevano libertari ma della libertà altrui avevano scarso rispetto».

L’Aquila, Pescara, il terremoto.

«Sono nato e cresciuto all’Aquila, vivo a Pescara da più di quarant’anni e ci sto benissimo. L’Aquila è nel mio cuore, l’ho amata e odiata come capita con ogni grande passione. Il terremoto ha distrutto una città di straordinaria bellezza e armonia. La mia casa e quella paterna non ci sono più. Mio padre s’è visto crollare un muro addosso e non è sopravvissuto a lungo. Io per un anno e mezzo non sono più riuscito a dormire la notte. Non credo che il centro storico sarà mai ricostruito come prima, mi sembra un’impresa quasi impossibile. Mi auguro, naturalmente, di sbagliarmi. E poi, c’è un’altra questione: come ricostruire L’Aquila, esattamente com’era? Che senso avrebbe una città finto-antica?».

Ha detto di trovarsi benissimo a Pescara. Nessuna critica?

«Altroché. Pescara mi piace molto come città: l’ampiezza degli spazi, la gradevolezza del centro, a parte l’incomprensibile follia del calice di Toyo Ito, il mare, la cucina di pesce, la sfacciata modernità senza memoria… Pescara mi piace soprattutto perché mi fa sentire libero, non sorvegliato».

Non sorvegliato?

«Vede, all’Aquila, gran parte della vita sociale si svolgeva nei duecento metri di corso che vanno da piazza Duomo ai Quattro Cantoni. Era una sorta di tragittoesame, dove tutti avevano qualcosa da dire e ridire su tutti e ognuno sapeva tutto di tutti. Un sottile ma asfissiante controllo sociale che a Pescara, per fortuna, non c’è o, quanto meno, io non avverto».

Le critiche?

«La vita culturale di Pescara oggi è, a dir poco, vergognosamente inadeguata ad una città del genere. Nel primo decennio della mia vita pescarese c’erano fermenti, idee, luoghi d’incontro, personaggi intellettualmente vivaci e generosi che non esitavano a mettere in comune progetti ed esperienze. Per rimanere nel mio campo, personaggi come Peppino D’Emilio, Elio Di Blasio e Alfredo Del Greco, gallerie come Convergenze o Pieroni, facevano di Pescara una città culturalmente viva, per certi aspetti all’avanguardia, comunque con un suo ruolo, piccolo ma significativo, nel mondo delle arti figurative italiane».

Vittorio Sgarbi durante la presentazione del film a Santo Stefano di SessanioOggi, invece, Pescara…

«È un deserto, almeno dal punto di vista culturale».

Si parla di un rilancio di “Fuori uso”. Una buona notizia, no?

«Buona per chi?».

Insomma, lei non salva niente e nessuno...

«A Pescara non mancano intelligenze e talenti, mancano iniziative per metterli in comunicazione, per dimostrare la vacuità di certo esasperato individualismo, di chi pensa di risolvere chissà che cosa coltivando il proprio orticello e pisciando in quello degli altri. C’è una mentalità sbagliata da cambiare e rifondare, prendendo esempio dalle migliori esperienze del passato».

C’è un pittore, un artista abruzzese contemporaneo che lei apprezza in modo particolare?

«Giuseppe Fiducia, purtroppo scomparso pochi mesi fa. Peppino era un grande».

E tra i pittori abruzzesi del Novecento, qual è il suo preferito?

«Fulvio Muzi, nel suo genere, era di notevolissima statura. Per me, sicuramente meglio di Guttuso».

Visca durante le riprese del filmUn Cuore Rosso sul Gran Sasso. Una storica performance del 1975 di cui per anni s’è parlato e favoleggiato anche se pochi ne furono protagonisti o testimoni. Un evento quasi mitizzato, nel ricordo e nel racconto, per certi suoi caratteri “epici”: un grande cuore rosso di pezza portato a spalla su una lettiga in una faticosa marcia fin sul Gran Sasso, lasciato lì per tre giorni e poi riportato indietro con i segni laceranti delle intemperie d’alta quota. Oggi, grazie al film che Visca realizzò in quell’occasione, presentato lo scorso agosto a Santo Stefano di Sessanio come “evento speciale” della Biennale di Venezia, tutti possono finalmente assistere a quella sua lontana iniziativa. Trentasei anni per montare un film sono davvero tanti…

«Le risparmio il racconto delle tante traversìe e difficoltà incontrate all’Aquila. L’importante è che oggi il film ci sia. Voglio solo dire che senza l’aiuto di tanti e disinteressati amici non ce l’avrei mai fatta, sia a realizzare la performance del ’75, sia a girare e montare il film».

Che cosa rappresenta il Cuore Rosso nella sua produzione artistica?

«Molte cose. Il mio grande amore per la montagna, per il Gran Sasso in particolare, allora minacciato da demenziali progetti, come ad esempio la strada in alta quota che, per fortuna, s’è rivelata così poco frequentata e così spesso chiusa al traffico per la neve, che ha provocato danni del tutto irrilevanti. La mia consonanza con le tracce ormai invisibili, e già allora minute, di una cultura contadino-pastorale fatta di religiosità, superstizioni, riti esoterici, credenze magiche. Il mio “cuore rosso”, infatti, vuole anche essere una “citazione” del breve. Per quanto riguarda la sua collocazione nella mia produzione artistica, il cuore è stato figura e tema presente, sicuramente per un certo periodo. In fondo, il cuore è simbolo arcaico, potente e perenne della vita e dell’amore ma anche, inevitabilmente, della morte e dell’odio. Esattamente come l’arte».


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